Terrasanta Clan MI68 – 2009

UN AUGURIO DI BUONA STRADA DAL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI

 
Prima di partire per la Terrasanta abbiamo avuto la fortuna di essere ricevuti dal Cardinale Carlo Maria Martini. Avremmo voluto andarlo a trovare a Gerusalemme, ma il peggiorare delle sue condizioni di salute lo aveva già riportato in Italia, a Gallarate. E pur se affaticato, ha voluto incontrare questo gruppetto di pellegrini milanesi in partenza per la Terra di Gesù.
Siamo arrivati con un po’ di emozione, ma la cordialità di un uomo semplice e diretto ci ha permesso di sederci accanto a lui come per una chiacchierata fra fratelli.
Don Piero e don Nicola ci hanno accompagnati, introducendo il nostro gruppo, la Parrocchia, le gioie e le fatiche della vita quotidiana in via Padova.
Inizialmente il nostro interesse era legato al conflitto che caratterizza la storia di queste terre, e poi si è allargato l’orizzonte, perché la Terrasanta è un luogo che non lascia indifferenti da diversi punti di vista: culturale, sociale, personale e spirituale.
I ragazzi hanno ben compreso l’opportunità di quest’esperienza e hanno chiesto al Cardinale di aiutarli a meditare, a porsi domande per vedere oltre le cose semplici, per ragionare in una dimensione spirituale di rapporto con Dio nella città di Gerusalemme, per avere una relazione più profonda con il Signore in un viaggio di questo tipo.

 

Vi ringrazio molto per la vostra scelta di andare a Gerusalemme perché non è una scelta facile. Qualche rischio c’è, dappertutto, però qualche rischio c’è sempre. E poi se uno vuol vedere dei bei monumenti, delle cose grandiose, va in Grecia, va in Anatolia, va in Egitto. A Gerusalemme ci sono cose da poco, sì, c’è qualcosa del mondo arabo, la moschea di Omar, ma le cose cristiane sono un po’ deludenti, c’è molta delusione da aspettarsi.
Quindi io direi che l’atteggiamento con cui si va a Gerusalemme è l’atteggiamento di Fede, cioè di vedere dietro e dentro le cose, i luoghi e le persone, la figura vivente di Cristo. Se no, uno diventa un conoscitore della topografia o della sociologia, ma non acquista molto. Un atteggiamento di fede che si dimentica facilmente, perché poi ci si interessa a tante piccole cose.
Io sono stato sei anni a Gerusalemme dopo il mio impegno a Milano e ho goduto molto in questa città, mi piace molto stare. Ci sarei rimasto volentieri se la salute me lo avesse permesso, perché è una città piena di motivazioni, di grandi simboli. Non lascia indifferenti. Però vorrei ricordare alcune poche cose. Primo, la Fede, come punto fondamentale. Secondo, se possibile, non giudicare. Perché uno va e poi sente uno, sente l’altro e allora dà ragione all’ultimo e si mette in una certa categoria. E allora è meglio non giudicare, pregare per tutte le violenze, le dialettiche che ci sono, ma non scegliere una parte o l’altra, perché si sbaglia. E di solito Gerusalemme è un mondo così complesso, perché ha tremila anni di storia, trentasette volte conquistata, distrutta… che quando uno comincia a dire “Non ci capisco niente” allora vuol dire che ha capito qualcosa.
[…] La terza cosa che vi raccomando, non l’ho vista qui nelle domande, è di non trascurare il mondo ebraico: l’ebraismo, il Sabato, la sinagoga. Quindi cogliere l’insieme della vita di questa regione.
[…] Valutare senza giudicare. Raccogliere fatti oggettivi. Ricordo che ogni volta che venivo in Italia avevo questa impressione: che mentre là c’è vita e morte, quindi c’è serietà, c’è senso del rischio, l’Italia appare al confronto come un paese giocherellone e un po’ trasognato. Anche se non è vero, la gente soffre molto, però le televisioni danno questa immagine. Quindi c’è differenza grande. Però, proprio per questo bisogna immergersi nei singoli contesti, per quanto è possibile: ebraico, cristiano, musulmano e anche generale, cioè dialettico, di guerra.
[…] Il processo (di intercessione, ndr) deve andare avanti, ma è un processo interiore. Perché non è che le cose lo comportino, ma anzi comportano piuttosto l’arrabbiatura di questi contro quelli. Invece, interiormente è un processo molto lungo, che consiste non soltanto nell’intercedere e chiedere grazia per questo o quello, ma sentirci tutti parte di un unico corpo da salvare per l’eternità. E qui sentire la responsabilità gli uni per gli altri. A cominciare dalla preghiera. Questo deve rimanere per tutta la vita e dev’essere la preparazione all’eternità nella quale tutto il mondo sarà salvato, unito e trasparente in Dio. Ecco, questa è la visuale che bisogna avere.
Ci siamo salutati con un’ultima richiesta, una riflessione e un commento su che cosa portare e che cosa a nostra volta portare a casa.
Voi portate il desiderio di approfondire la fede, la fede e anche la conoscenza dell’Uomo. E portate con voi quello che avete approfondito. Quindi una maggiore conoscenza della fede e dei misteri di Dio, della comprensibilità dei misteri di Dio, di affidarsi e di ciò che c’è dentro nell’Uomo.
Quindi è un grande patrimonio che non si può circoscrivere, che poi ciascuno declina a suo modo.
Un po’ vi invidio perché verrei volentieri con voi, ma non è possibile per ora.
Inshallah. Pregherò per voi perché possiate essere attenti, come dice Gesù più volte nei vangeli. “Non avete capito, non siete attenti. Avete occhi e non vedete, orecchi e non udite”. Quanta gente non ha nessuna comprensione oppure ce l’hanno già fatta, proiettata sugli eventi e non tratta dagli eventi.

 

 
Grazie, Cardinale. Abbiamo pregato per Lei sul monte del Calvario come ci aveva chiesto. E l’abbiamo portata nel cuore sulle strade che abbiamo percorso, negli incontri con la gente, nei luoghi che ci hanno ricordato l’Amore di Dio per ciascuno di noi.
il Clan dello Strafalari – Milano 68
 
JERICHO: INCONTRO CON UN POPOLO E LA SUA TERRA (prima parte)
Inizia da Tel Aviv la nostra route in Terrasanta. Durante il viaggio da questa grande e moderna città israeliana a Jericho il paesaggio cambia, e cominciamo a intravedere i segni di questa bella e difficile terra, in questi giorni ferita da una guerra che sta facendo molte vittime civili, anche bambini. L’obiettivo, consigliatoci dal Cardinal Martini, che ci eravamo posti di non giudicare, si scontra fin da subito, con la realtà. Al primo check point, che segna uno dei tanti confini tra Israele e Palestina, noi passiamo senza troppi problemi, ma per chi deve uscire da Jericho, una barriera ininterrotta di macchine, taxi, camioncini, gente che aspetta forse da ore, e forse aspetterà ancora… Impariamo che qui si vive giorno per giorno, non c’è tanto spazio per i progetti e per i sogni…
A Jericho ci accoglie Abuna Feras, padre francescano, prete della piccola chiesa cattolica della città. Dopo un breve momento insieme, cominciamo da subito a giocare con i ragazzi: calcio, basket… Vicino alla chiesa si trova una moschea con il suo alto minareto. Conosciamo anche i primi bimbi, Alex e Tamer, sono solo due di loro. Mangiamo insieme la nostra prima cena palestinese e balliamo con i bambini sul ritmo di musiche arabe.
Poi la bellissima accoglienza divisi in gruppetti, ciascuno in quella che poi diventerà la “propria” famiglia adottiva: “You‘re welcome!”. Parole di benvenuto e di affetto. Non di circostanza, ma calde e vive. E dopo un po’ riusciamo a inserirci nei discorsi, e al loro arabo, si intermezzano timide parole di inglese che diventano sempre di più e prendono vita e colore. Cinque minuti fa non ci eravamo mai visti, ora è come se fossimo diventati veramente parte della famiglia. Ci cominciano ad offrire vino, biscotti, té, caffè… In alcune famiglie per fare posto a noi, bambini, ragazzi, a volte anche i genitori, hanno dormito sui divani nei salotti. Questa è vera ospitalità e accoglienza. Nel bel mezzo della notte molti di noi sono svegliati, per la prima volta, dal canto del muezzin che sembra non finire mai.
La mattina ci accorgiamo di quanto, qui, siano abbondanti e belle le colazioni. Con questi profumi e sapori nel cuore cominciamo le giornate, rendendoci conto che queste famiglie ci stanno offrendo tutto ciò che hanno dal primo giorno! E ci accorgiamo che, se in Italia a volte ci si vergogna a chiedere ancora, qui ci vergogniamo a dire basta, siamo pieni, perché tutto quello che ci offrono per loro è prezioso ed è dono!
Partiamo con il pullmino per Qumran. Ma ad un check point quello che non ci saremmo mai aspettati: ci impediscono di andare avanti. Nessuna spiegazione. Poi capiamo che probabilmente i soldati non hanno voluto farci proseguire perché il nostro autista veniva da un campo profughi. Non volevano che lavorasse. Per noi niente di male. Ma diventa difficile non giudicare. Partiamo allora per una camminata nel deserto.
I colori della terra: rosso, bianco, giallo, ocra. Silenzio. L’acqua che scorre, di una vivace lentezza, come il nostro passo, il fiume: vita nel deserto. Una piccola oasi e una casa di pastori, i beduini e i loro poveri accampamenti. Sembra di essere tornati al tempo di Gesù. Riusciamo a goderci il silenzio e a riflettere. Si condividono ogni tanto piccole e semplici parole. Arriviamo al monastero di San Giorgio in Koziba, incastonato nella roccia del deserto. Ci accolgono dei beduini. Visitiamo il monastero e poi un operaio che lavora lì ci offre il caffè… impariamo a rispondere “scukran!”, grazie! Impariamo la gratuità. Ripartiamo camminando tra le montagne e ad un certo punto la valle si apre e davanti a noi appare Jericho, colpita dal raggi di sole. Ci saziamo di questi colori e di questa città.
Sulla via del ritorno si affacciano scene della Bibbia e dei Vangeli: pastori bambini con il loro gregge di capre, una mamma e un bimbo su un asinello, altri beduini e una piccola e semplice chiesa copta.
In parrocchia la messa e la condivisione di pensieri e preghiere. Poi ogni momento è buono per divertirci con i ragazzi li in oratorio. La sera raggiungiamo ciascuno la propria famiglia e si parla, si sta insieme… quello che abbiamo fatto durante il giorno, musica, film, scout, scuola…
Ogni momento diventiamo sempre più figli e fratelli!
Benedetta, Clan dello Strafalari 
 
JERICHO: INCONTRO CON UN POPOLO E LA SUA TERRA (seconda parte)
 Domenica andiamo a messa tutti insieme, e nonostante quello che accade a Gaza, qui si respira un momentaneo clima di gioia e serenità. La messa è concelebrata dai due Abuna, i due don, arabo e italiano, i canti in entrambe le lingue, il crearsi di una comunione vera. A mezzogiorno un attimo di silenzio: la realtà torna a irrompere violenta, con le campane a lutto per le vittime innocenti di Gaza che ogni giorno aumentano… Dopo qualche foto con Paolo, simpatico vecchietto che ci ha preso in simpatia, e con altri ragazzi, andiamo a visitare le rovine di un palazzo musulmano. Poi ciascuno nella sua famiglia per il pranzo tutti insieme, in un clima di festa vero. Sulla tavola riso, pollo speziato, agnello, humus… di tutto e di più!
Nel pomeriggio saliamo sul monte delle Tentazioni, dove si erge il monastero della Quarantena: qui Gesù trascorse i quaranta giorni e le quaranta notti nel deserto. Arrivati in cima, don Nicola legge la parola di Dio. Ciascuno di noi trova ancora il tempo di fermarsi e riflettere, cosa che a Milano accade molto raramente. Abbiamo avuto modo di riflettere sulla nostra fede, sul percorso da intraprendere, su obiettivi e mete per la nostra vita.
In oratorio giochiamo ancora partite su partite, ogni giorno, ogni momento che possiamo. Piove! Qui piove poco, e queste poche gocce cadute vengono accolte con gioia, ci spiegano. E ci sentiamo anche noi partecipi di questa gioia.
A casa si impara così a lavarsi sprecando meno acqua possibile. Perché qui l’acqua è poca. Un buon té caldo e profumato bevuto tutti insieme, non manca mai. Qui tutto sembra avere un altro sapore. Ogni gesto, ogni silenzio e ogni parola. Intanto sullo sfondo le immagini che si susseguono sulla televisione sono di dolore e rabbia. I bombardamenti continuano.
Ciascuno nella sua famiglia gioca con i fratelli più piccoli, parla con i più grandi, si gioca a carte, si impara l’arabo e si insegna l’italiano. Queste famiglie ci stanno donando veramente tutto, con gioia e generosità. Questa terra e la sua gente ci stupiscono ogni giorno di più.
Infine andiamo a Masada, ultima roccaforte degli Ebrei ad aver ostacolato i Romani. Percorriamo lo snake path, il lungo sentiero che porta fino alla cima. Caldo. Fatica. Ma dall’alto la vista è stupenda.
Dopo la visita andiamo a Qumran, altro sito archeologico dove si pensa sia vissuta un’antica comunità di ebrei esseni distaccatasi da Gerusalemme.
A casa la messa. Alex, uno dei bambini di Jericho, viene con noi, canta con noi seguendo la melodia. Fa il chierichetto, e guarda attento e curioso la mia Bibbia in italiano e i disegni che ci sono sopra. E’ bello che sia con noi!
Fuori sul campo delle bambine si allenano a basket seguendo le istruzioni di un allenatore.
Giochiamo per l’ennesima volta a pallavolo, ma sempre con la gioia di essere lì, insieme ai ragazzi e ai bimbi di Jericho. Parliamo, conosciamo nuovi ragazzi e scherziamo con loro. Ceniamo tutti insieme in oratorio in un clima di festa. E poi gli ultimi sfidoni a pallavolo: Italy-Jericho, e poi ci mescoliamo.
Le urla di incitamento. I nostri cuori sono pieni di gioia. Tra una partita e l’altra chiaccheriamo. In inglese ovviamente! I bambini ci insegnano qualche parola in arabo.
Chiudiamo la serata in oratorio con la consegna da parte dei ragazzi palestinesi del loro stemma scout ad ognuno di noi. Una preghiera insieme e poi ciascuno va nella sua famiglia per stare un po’ insieme e per dare anche noi i nostri doni. Si canta, in italiano e in arabo e spontaneamente le mani tengono il ritmo. Si respira gioia pura nelle voci, nei ritmi… Si balla felici di essersi conosciuti, di essere diventati fratelli e amici. Di aver condiviso un pezzo della nostra vita. Forse ci sentiamo un po’ più tutti palestinesi dopo questi quattro giorni. Per le poche parole in arabo imparate con fatica, suscitando il divertimento nei nostri “insegnanti“, per il cibo, per la terra che abbiamo calpestato, per la musica sulla quale abbiamo ballato…
Una pazza e sana gioia. Ultimo giorno qui con le nostre famiglie e con i nostri fratelli e sorelle.
La mattina ci colpisce all’improvviso la tristezza di dover partire e dover lasciare le oramai nostre famiglie. L’ultima colazione con loro. Ultima si spera solo per ora. Nel cuore il desiderio di tornare. “You are always welcome!”. Abbiamo trascorso quattro giorni che ricorderemo per sempre. Ci abbracciamo, ci salutiamo e ci baciamo con i tre baci degli arabi. Si va. Nel cuore tanti pensieri e una gioia mista a tristezza. Scukran, Jericho!
Benedetta, Clan dello Strafalari 
 
IL DESERTO
 Dopo l’episodio del check-point abbiamo fatto retro-front e ci siamo diretti verso il deserto di Giuda, avevamo in programma una visita a un antico monastero ortodosso, anche se per il giorno seguente.
Già visto dai finestrini del pulmino, il deserto compariva a entrambi i lati sconfinato, all’inizio ancora addolcito dalla pianura di Jericho, poi sempre più secco e senza coltivazioni man mano che ci inoltravamo, fino ad apparire come una vastità sterminata di colline rocciose, sommerse in un’immobilità permanente.
Nel punto in cui si è fermato il pulmino la strada si allargava in uno spiazzo sassoso dove c’erano alcuni beduini e un asino legato in cima a una duna. Al nostro arrivo alcuni di loro ci sono venuti incontro per vendere delle kefiah di vario colore, facendocene indossare qualcuna per prova.
Davanti a noi comparivano i resti di un acquedotto romano che un tempo serviva a trasportare l’acqua dalla sorgente fino a Jericho. Oggi, invece, l’acqua scorre in un canaletto di pietra, che costeggia tutta la vallata, e scende giù nei pressi del monastero.
Continuiamo a salire e scendere, salire e scendere, fino a vedere davanti a noi la sorgente.
Tutta la zona era totalmente invasa dalla vegetazione: la piccola oasi appariva come uno squarcio rigoglioso nell’aridità del deserto. Le piante, con un fogliame verdissimo, sviluppavano le radici nell’acqua limpida, nella quale si nascondeva anche qualche granchio all’ombra di una roccia e una grande quantità di piccole lumache che popolavano i ciottoli immersi nell’acqua.
Quel luogo, così intensamente vivo in confronto al resto del deserto, infondeva un senso di tranquillità, come se la cappa opprimente del deserto si dissolvesse nella superficie dell’acqua, liscia, senza un’increspatura.
Dall’oasi abbiamo seguito un sentiero che avanzava pari passo con il corso d’acqua. E qui, mentre l’acqua scorreva placida alla nostra destra, abbiamo scorto alcuni uccelli dalle piume blu, che si aggiravano fuggevoli tra le fronde degli arbusti.
Ovunque qua e là, tra le pietre, sbucavano piante grasse simili a fiori, con lunghi petali verdi protesi al sole. Sembravano tante dita che pregavano il cielo, forse per una pioggia liberatrice, forse per una goccia sola, da bere, per avere ancora sete.
Oltre il corso d’acqua, infatti, tutto aveva l’aria di aver sete: la terra, le rocce, i rami sparsi sulla sabbia, tutta la distesa desertica, con la sua monocromia che terminava solo all’orizzonte, dove una linea omogenea, come tracciata da un pennarello, segnava il confine tra la terra e il cielo.
Nello stesso cielo, azzurro, senza una nuvola, lo sguardo vagava senza soffermarsi su un punto preciso, e non si perdeva mai, anzi il cielo pareva di averlo davanti, di toccarlo, con una sua definita corporeità.
Tutto nel deserto era chiaro, tutto aveva uno scopo, così che i pensieri che naturalmente fluivano in testa trovavano la loro ragione, la loro tranquillità, rassomigliando a quel fiumiciattolo sulla destra, che con impercettibile movimento avanzava, nel suo letto di pietra, alla sua velocità, col suo tempo, con tutto il tempo che gli serviva, perché niente in quel luogo lo faceva affrettare.
Ogni cosa era come doveva essere. E ogni cosa che non era come doveva essere, conformandosi alla spontaneità del deserto, diventava come doveva essere.
Così anche la vita trovava posto nel deserto.
Lentamente arriviamo al monastero di San Giorgio in Koziba, costruito nella roccia del Wadi Qelt, stratificatasi di era in era dallo scavare di un fiume, oggi asciutto.
Vista da sotto, la costruzione sembrava una creatura viva, avviluppata su se stessa e incastonata nella roccia fino a diventare un tutt’uno con la montagna.
Dopo una visita guidata del muratore, che si è gentilmente offerto di mostrarci le stanze più belle del monastero, ci siamo rimessi sulla strada, questa volta per tornare a casa.
Già dall’inizio del Wadi Qelt si scorgeva Jericho, in fondo alla valle, come un triangolo di case e minareti luccicanti. Mentre gli andavamo incontro, nel sentiero di ritorno, la vista si allargava aprendosi su tutta la città, rivelandone i particolari, dalle numerose pozze d’acqua ai campi coltivati, dalle persone per strada alle capre ancora al pascolo nella periferia, finche incominciò a riecheggiare nell’aria il canto dei muezzin, come se fosse la voce del deserto che ci guidava a casa.
Francesco, Clan dello Strafalari 
 
SUOR DONATELLA E IL CARITAS BABY HOSPITAL: LE DIFFICOLTÀ “OLTRE IL MURO”
Sono meno di dieci i chilometri che separano Betlemme da Gerusalemme. Praticamente come Milano e qualsiasi paese dell’hinterland. Eppure, come abbiamo avuto modo di imparare, ci troviamo in una terra incredibilmente frammentata, dove tantissime realtà diverse convivono una a fianco all’altra. E quindi, qui, quei dieci chilometri diventano una distanza considerevole, enorme se in mezzo c’è, come tra Betlemme e Gerusalemme, un muro di cemento armato alto 8 metri.
Eretto nel 2003 da Israele, serve ufficialmente a impedire l’ingresso di terroristi palestinesi in territorio israeliano. E infatti gli attacchi compiuti da attentatori provenienti dai Territori sono diminuiti del 99%. Ma gli “effetti collaterali” (se di effetti collaterali si può parlare quando le conseguenze sono così gravi) ci sono, e pesantissimi. Il muro infatti isola sia i cittadini israeliani che quelli palestinesi; gli unici che lo possono attraversare liberamente sono gli stranieri.
Per comprendere la forza devastante di questa divisione, e per capire come si viva “dall’altra parte del muro” (quella palestinese), basta una chiacchierata con suor Donatella, che gestisce il Caritas Baby Hospital di Betlemme, l’unico ospedale pediatrico attivo nei Territori. L’abbiamo incontrata un pomeriggio, subito dopo una prima rapida immersione nella città di Gerusalemme, così diversa dalla Jericho a cui eravamo ormai abituati.
Suor Donatella ci racconta le difficoltà di una struttura “di frontiera” come questa, che si regge sulle donazioni e su quello che pagano i pochi bambini le cui famiglie se lo possono permettere. Difficoltà enormi, soprattutto, nel reperire i medicinali, che per raggiungere l’ospedale devono oltrepassare il muro.
I problemi, però, riguardano anche i medici, che sono palestinesi e nella maggior parte dei casi non specializzati. Gli specialisti non si trovano a molta distanza (basta andare a Gerusalemme), ma in mezzo c’è sempre il muro. Ci sarebbero anche dei medici israeliani disposti a venire a lavorare al Caritas Baby Hospital, ma Israele vieta loro di oltrepassare il muro, “per motivi di sicurezza”. E così si cerca di portare dall’altra parte, nel minor tempo possibile, i bambini che necessitano di interventi particolari. Con enormi difficoltà logistiche (l’ambulanza palestinese non può oltrepassare il muro, quindi deve essercene una israeliana su cui trasferire il bambino), ma soprattutto con tempi troppo lunghi.
Suor Donatella ci racconta che, recentemente, l’ospedale ha preso contatti con una dottoressa israeliana, che riesce a ottenere i permessi in tre giorni. Un tempo record, rispetto al passato, ma sempre estremamente lungo, troppo se in gioco c’è la vita di un bambino. E allora, quando non è possibile aspettare, a operare sono i medici palestinesi, guidati per telefono dagli specialisti israeliani che si trovano dall’altra parte del muro. Ma più volte è capitato che alcuni bambini non ce la facessero ad aspettare, e Suor Donatella si è trovata, impotente, a vederli morire.
Attraverso le difficoltà che il muro crea all’attività dell’ospedale, Suor Donatella ci racconta di tutti i problemi che ha causato a Betlemme. Molti palestinesi, che lavoravano a Gerusalemme, hanno perso il lavoro, per via degli estenuanti controlli al checkpoint, che possono durare ore e far arrivare in ritardo, e per le difficoltà nell’ottenere i permessi per andare dall’altra parte. Da quando il muro è stato costruito, il disagio sociale a Betlemme è cresciuto vertiginosamente, così come l’uso di droghe, prima molto limitato. Il problema, ci spiega, è che i giovani non hanno più posti dove andare, dove trovarsi: prima andavano a Gerusalemme.
Parlando della situazione in Terrasanta (quando la incontriamo, è scoppiata da qualche giorno la guerra a Gaza) Suor Donatella ci dice di essere “arrabbiata con Dio” perché la situazione è sempre più grave. Del resto, aggiunge, solo Lui ormai può mettere le cose a posto. Lei e le sue consorelle, comunque, non hanno perso la speranza, e da alcuni anni si ritrovano ogni venerdì a pregare il rosario davanti al muro. Come gli ebrei hanno il loro muro del pianto, ci racconta, così “noi abbiamo il nostro muro”. E non sono sole: contemporaneamente, in diverse chiese in Italia si prega il rosario con un pensiero particolare per la situazione in Terrasanta.
Dopo la chiacchierata, Suor Donatella ci fa visitare l’ospedale, mostrandoci le mamme (e in qualche caso i papà) che stanno accanto ai loro bambini e aiutano il personale sanitario ad accudirli. Un modo per non curare solo il bimbo malato, ma per educare anche i genitori (spesso molto giovani) a prendersene cura correttamente. Guardando i piccoli pazienti attraverso i vetri delle porte, siamo un po’ in imbarazzo, preoccupati di essere invadenti, di farli sentire “come allo zoo”. Suor Donatella, invece, ci rassicura: per loro la nostra non è invadenza, ma sintomo di interesse e di partecipazione alla loro situazione.
Dopo una foto ricordo con Suor Donatella, lasciamo l’ospedale. Sono ormai alcuni giorni che siamo in Terrasanta, e ormai ci siamo abituati ai checkpoint, ai soldati, ai confini. Tuttavia riattraversare il muro, questa volta non in pullman ma al checkpoint pedonale, ci fa comprendere tutta la sua drammaticità, dopo aver sentito, da chi ogni giorno deve fare i conti con la sua ingombrante presenza, quali (enormi) problemi provochi.
Simone, Clan dello Strafalari 
 
AL SANTO SEPOLCRO
Alle 6 del mattino la città vecchia di Gerusalemme è deserta, le strade ancora illuminate dai lampioni, si fa fatica a riconoscere il suq arabo senza i colori tipici delle bancarelle e le tante voci che si mescolano.
Alcuni di noi, accompagnati da don Nicola, scelgono di andare al Santo Sepolcro in questa atmosfera mattutina. Il grande portone all’ ingresso era stato aperto poco prima, la luce soffusa e il silenzio ricreavano l’ambiente esterno. Salite le ripide scale situate all’ ingresso, ci troviamo nella parte superiore che ospita il calvario, il luogo dove anche il Cardinale Martini ci aveva chiesto di pregare per lui.
Nell’aria risuona l’eco delle voci di un gruppo di pellegrini che sta celebrando la messa approfittando di questa quiete che si riesce a trovare solo a quest’ora del mattino, evitando così di trovarsi immersi nella folla rumorosa e poco rispettosa di turisti che invade questo luogo santo durante il resto della giornata.
Il tempo lasciatoci nell’edicola è stato pochissimo, anche se noi avremmo voluto assaporare più a lungo il silenzio e la preghiera.
Molta della poca luce si effondeva dalle candele accese dai pellegrini. I profumi emanati da diverse fonti, come la pietra dell’unzione di Gesù e l’incenso del turibolo, si intrecciavano in un’ unica fragranza.
Non mi immaginavo di riuscire a trovare in un luogo condiviso da tante religioni (cattolica, armena, ortodossa, i quasi inesistenti siriaci e la poverissima copta sul tetto) una pace così profonda, che è stata spunto di meditazione e riflessione: trovare un proprio spazio all’interno della basilica del Santo Sepolcro, riuscire a fermarsi e a riflettere in un luogo così importante.
Francesca, Clan dello Strafalari
tantissime realtà diverse convivono una a fianco all’altra. E quindi, qui, quei dieci chilometri diventano una distanza considerevole, enorme se in mezzo c’è, come tra Betlemme e Gerusalemme, un muro di cemento armato alto 8 metri.
Eretto nel 2003 da Israele, serve ufficialmente a impedire l’ingresso di terroristi palestinesi in territorio israeliano. E infatti gli attacchi compiuti da attentatori provenienti dai Territori sono diminuiti del 99%. Ma gli “effetti collaterali” (se di effetti collaterali si può parlare quando le conseguenze sono così gravi) ci sono, e pesantissimi. Il muro infatti isola sia i cittadini israeliani che quelli palestinesi; gli unici che lo possono attraversare liberamente sono gli stranieri.
Per comprendere la forza devastante di questa divisione, e per capire come si viva “dall’altra parte del muro” (quella palestinese), basta una chiacchierata con suor Donatella, che gestisce il Caritas Baby Hospital di Betlemme, l’unico ospedale pediatrico attivo nei Territori. L’abbiamo incontrata un pomeriggio, subito dopo una prima rapida immersione nella città di Gerusalemme, così diversa dalla Jericho a cui eravamo ormai abituati.
Suor Donatella ci racconta le difficoltà di una struttura “di frontiera” come questa, che si regge sulle donazioni e su quello che pagano i pochi bambini le cui famiglie se lo possono permettere. Difficoltà enormi, soprattutto, nel reperire i medicinali, che per raggiungere l’ospedale devono oltrepassare il muro.
I problemi, però, riguardano anche i medici, che sono palestinesi e nella maggior parte dei casi non specializzati. Gli specialisti non si trovano a molta distanza (basta andare a Gerusalemme), ma in mezzo c’è sempre il muro. Ci sarebbero anche dei medici israeliani disposti a venire a lavorare al Caritas Baby Hospital, ma Israele vieta loro di oltrepassare il muro, “per motivi di sicurezza”. E così si cerca di portare dall’altra parte, nel minor tempo possibile, i bambini che necessitano di interventi particolari. Con enormi difficoltà logistiche (l’ambulanza palestinese non può oltrepassare il muro, quindi deve essercene una israeliana su cui trasferire il bambino), ma soprattutto con tempi troppo lunghi.
Suor Donatella ci racconta che, recentemente, l’ospedale ha preso contatti con una dottoressa israeliana, che riesce a ottenere i permessi in tre giorni. Un tempo record, rispetto al passato, ma sempre estremamente lungo, troppo se in gioco c’è la vita di un bambino. E allora, quando non è possibile aspettare, a operare sono i medici palestinesi, guidati per telefono dagli specialisti israeliani che si trovano dall’altra parte del muro. Ma più volte è capitato che alcuni bambini non ce la facessero ad aspettare, e Suor Donatella si è trovata, impotente, a vederli morire.
Attraverso le difficoltà che il muro crea all’attività dell’ospedale, Suor Donatella ci racconta di tutti i problemi che ha causato a Betlemme. Molti palestinesi, che lavoravano a Gerusalemme, hanno perso il lavoro, per via degli estenuanti controlli al checkpoint, che possono durare ore e far arrivare in ritardo, e per le difficoltà nell’ottenere i permessi per andare dall’altra parte. Da quando il muro è stato costruito, il disagio sociale a Betlemme è cresciuto vertiginosamente, così come l’uso di droghe, prima molto limitato. Il problema, ci spiega, è che i giovani non hanno più posti dove andare, dove trovarsi: prima andavano a Gerusalemme.
Parlando della situazione in Terrasanta (quando la incontriamo, è scoppiata da qualche giorno la guerra a Gaza) Suor Donatella ci dice di essere “arrabbiata con Dio” perché la situazione è sempre più grave. Del resto, aggiunge, solo Lui ormai può mettere le cose a posto. Lei e le sue consorelle, comunque, non hanno perso la speranza, e da alcuni anni si ritrovano ogni venerdì a pregare il rosario davanti al muro. Come gli ebrei hanno il loro muro del pianto, ci racconta, così “noi abbiamo il nostro muro”. E non sono sole: contemporaneamente, in diverse chiese in Italia si prega il rosario con un pensiero particolare per la situazione in Terrasanta.
Dopo la chiacchierata, Suor Donatella ci fa visitare l’ospedale, mostrandoci le mamme (e in qualche caso i papà) che stanno accanto ai loro bambini e aiutano il personale sanitario ad accudirli. Un modo per non curare solo il bimbo malato, ma per educare anche i genitori (spesso molto giovani) a prendersene cura correttamente. Guardando i piccoli pazienti attraverso i vetri delle porte, siamo un po’ in imbarazzo, preoccupati di essere invadenti, di farli sentire “come allo zoo”. Suor Donatella, invece, ci rassicura: per loro la nostra non è invadenza, ma sintomo di interesse e di partecipazione alla loro situazione.
Dopo una foto ricordo con Suor Donatella, lasciamo l’ospedale. Sono ormai alcuni giorni che siamo in Terrasanta, e ormai ci siamo abituati ai checkpoint, ai soldati, ai confini. Tuttavia riattraversare il muro, questa volta non in pullman ma al checkpoint pedonale, ci fa comprendere tutta la sua drammaticità, dopo aver sentito, da chi ogni giorno deve fare i conti con la sua ingombrante presenza, quali (enormi) problemi provochi.
Simone, Clan dello Strafalari 
 
AL SANTO SEPOLCRO
Alle 6 del mattino la città vecchia di Gerusalemme è deserta, le strade ancora illuminate dai lampioni, si fa fatica a riconoscere il suq arabo senza i colori tipici delle bancarelle e le tante voci che si mescolano.
Alcuni di noi, accompagnati da don Nicola, scelgono di andare al Santo Sepolcro in questa atmosfera mattutina. Il grande portone all’ ingresso era stato aperto poco prima, la luce soffusa e il silenzio ricreavano l’ambiente esterno. Salite le ripide scale situate all’ ingresso, ci troviamo nella parte superiore che ospita il calvario, il luogo dove anche il Cardinale Martini ci aveva chiesto di pregare per lui.
Nell’aria risuona l’eco delle voci di un gruppo di pellegrini che sta celebrando la messa approfittando di questa quiete che si riesce a trovare solo a quest’ora del mattino, evitando così di trovarsi immersi nella folla rumorosa e poco rispettosa di turisti che invade questo luogo santo durante il resto della giornata.
Il tempo lasciatoci nell’edicola è stato pochissimo, anche se noi avremmo voluto assaporare più a lungo il silenzio e la preghiera.
Molta della poca luce si effondeva dalle candele accese dai pellegrini. I profumi emanati da diverse fonti, come la pietra dell’unzione di Gesù e l’incenso del turibolo, si intrecciavano in un’ unica fragranza.
Non mi immaginavo di riuscire a trovare in un luogo condiviso da tante religioni (cattolica, armena, ortodossa, i quasi inesistenti siriaci e la poverissima copta sul tetto) una pace così profonda, che è stata spunto di meditazione e riflessione: trovare un proprio spazio all’interno della basilica del Santo Sepolcro, riuscire a fermarsi e a riflettere in un luogo così importante.
Francesca, Clan dello Strafalari